Günter Litfin. Storie dal Muro

©L. BarsottiGünter Litfin. 19 Gennaio 1937 –              24 Agosto 1961 Berlin.

Le parole e i pensieri attribuiti a Günter Litfin sono una mia libera interpretazione. I dati sono però certi e i fatti realmente accaduti. di Francesco Somigli

Ma voi lo sapete quanto è difficile lavorare da sarto coi tessuti sintetici? Non ci puoi cucire niente… o, almeno, niente di bello. Mi sono sempre piaciute le stoffe, la sensazione che danno quando si lavorano, il rumore che fanno al taglio delle forbici: è tutto così bello che ho deciso di farlo diventare il mio lavoro, anche se significa fare il pendolare tra due mondi sempre più diversi e lontani.

Un sarto di Berlino Est in una bottega di Berlino Ovest, quante prese in giro… “Günter, ma tu che ne sai di stoffe? Di là avete solo roba sintetica…”. “ Günter, me la fai una sciarpa? Oh, una che non prenda fuoco eh!”. Li ho lasciati dire perchè in realtà non mi davano fastidio: non hanno fatto altro che convincermi sempre di più che la mia strada fosse quella, anche se portava lontano dalla mia famiglia, lontano dalla mia parte di città, lontano da quella che mi sono abituato a chiamare casa.

Ho ritardato il più possibile la mia partenza definitiva: l’appartamento a Charlottenburg ce l’avevo già, ma mi sono sempre rifiutato di registrare la residenza. Se l’avessi fatto, sarei stato un “nemico dello stato socialista” e non avrei più rivisto mia madre e Jürgen, mio fratello.

Mio padre era già morto, non avrei potuto lasciarli soli: Jürgen è impulsivo, va tenuto a bada e ci sono sempre riuscito solo io. Loro sono sempre venuti prima di tutto, prima ancora della mia passione.

Poi, il 13 agosto. Sono sempre stato calmo, riflessivo, ma dopo quello che è successo  ho capito che non potevo più rimandare. Se fossi rimasto fermo non avrei avuto più la mia seta, non avrei più fare niente per rendere le persone più eleganti. Come si può vivere in un paese sintetico? La mia decisione in realtà l’avevo già presa anni prima. Era solo stata rimandata.

Il 24 agosto sono andato sulla riva della Sprea, dove c’è l’ospedale Charitè, avete presente?Lì Berlino sembrava ancora unita: niente filo spinato, niente cemento. Solo acqua. Non era una grande nuotata e ho deciso di tentare. Prima di buttarmi ho pensato che, se fosse andata male, avrei comunque potuto tentare di fare il sarto a Berlino Est: sarei stato catturato e rimpatriato, mi sarebbe dispiaciuto, ma prima o poi avrei superato la delusione…

Non potevo sapere che la polizia di confine aveva un ordine preciso; da pochi giorni, sulla linea di confine, si sparava a vista. A tutti, senza distinzioni: ai delinquenti, ai nemici dello stato, alle persone comuni e perfino ai sarti.

Non mi ero accorto dei militari: erano in alto, sul ponte ferroviario. Io guardavo solo l’acqua. Mi hanno urlato di fermarmi, hanno sparato qualche colpo lontano per impedirmi di saltare, ma io ero già in volo e non potevo più tornare indietro.

Sono stato colpito alla nuca, un colpo solo. Una volta avevo chiesto ad un amico che era nell’esercito che cosa si sente quando ti sparano: “Si sente il botto”, mi aveva risposto ridendo.

Aveva ragione, si sente il botto. E poi più niente.

Mi hanno tirato fuori dalla Sprea dopo tre ore. Sono diventato famoso, ma non per la ragione che avrei sperato. Niente seta, niente cotone, niente lana: sono stato la prima persona ad essere uccisa per mano della polizia di confine nel tentativo di fuggire ad Ovest. Sono diventato un esempio, un precedente, un deterrente: “ve lo ricordate quel sarto che è stato ucciso ad Agosto? Farete la stessa fine.” Ma tutto questo non si può dire a voce alta: in un paese sintetico si diventa solo “vittime di un tragico incidente”. Non mi interessa più niente. Ho solo capito che la differenza fra la vita e la morte è solo una questione di materiali: la seta e il cotone da una parte; l’acciaio e il cemento dall’altra.

Foto: ©L. Barsotti

Ricerche a cura di F. Somigli, collaboratore del progetto Berlino Explorer
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